Mobbing per maternità: quando succede e cosa fare

I dati parlano chiaro: negli ultimi cinque anni in Italia i casi di mobbing per maternità sono aumentati del 30 per cento. Secondo le ultime stime dell’Osservatorio Nazionale Mobbing solo negli ultimi due anni sono state licenziate o costrette a dimettersi 800mila donne. Almeno 350mila sono quelle discriminate per via della maternità o per aver avanzato richieste per conciliare il lavoro con la vita familiare.

Mobbing per maternità: quanto è diffuso?

Sempre secondo l’Osservatorio, 4 madri su 10 vengono costrette a dare le dimissioni per effetto di “mobbing post partum”. Con un’incidenza superiore nelle regioni del Sud (21%), del Nord Ovest (20%) e del Nord Est (18%). Anche se la situazione più allarmante si registra nelle metropoli, Milano in testa.

I casi che si trasformano in effettive denunce, però, sono pochi. Ad averla vinta, inoltre, sono quasi sempre le aziende: nella maggior parte dei casi la lavoratrice si limita ad avviare una causa al Tribunale del Lavoro e, senza neppure portarla a termine, stremata da quella che diventa un’autentica guerra psicologica, rassegna le dimissioni. Spesso – confermano i sindacati – la denuncia verso i datori di lavoro viene ritirata senza avere neppure raggiunto un adeguato compromesso economico. Le lavoratrici subiscono in silenzio e quindi, esasperate e avvilite, se ne vanno per sempre.

La storia di Chiara dipendente di un’azienda milanese demansionata ed emarginata sul lavoro dopo la seconda maternità

“Non dovevi fare un altro figlio, ora al lavoro ti faranno morire. Ti conviene andartene”. Sono state queste le parole rivolte da un consulente a Chiara, dipendente di un’azienda milanese a cui è stata imputata la “colpa” di una seconda maternità. A raccontare la vicenda è il Corriere della Sera. Riportiamo qui fedelmente quanto rportato dal quotidiano.

Con il primo figlio nessun problema, tutto era andato secondo le leggi. Ma la seconda gravidanza, circa un anno fa, arriva in un clima totalmente diverso […] C’è stato un cambio generazionale al vertice dell’azienda familiare e il nuovo “capo” appare subito contrariato quando viene a sapere che Chiara è incinta.

All’inizio alla donna viene fatto notare un “ritardo nella comunicazione” della gravidanza e quando lei prova a far notare che, in realtà, l’annuncio era pervenuto nei termini stabiliti, il datore di lavoro insiste:

“Dovevi dirmelo già quando tu e il tuo compagno avete deciso di avere un altro bambino”. E quando la ragazza spiega che nei primi tre mesi possono succedere tante cose lui va oltre l’immaginabile: “Perché se l’avessi perso non me lo avresti detto?”.

Da lì partono contestazioni su contestazioni e, quando Chiara va in maternità, viene a sapere che la persona chiamata a sostituirla è stata assunta a tempo indeterminato.

Dopo il primo approccio del consulente dell’azienda che le propone dimissioni incentivate accompagnate da quella frase (“Ti faranno morire”), al rientro non viene ricevuta dai suoi dirigenti ma da un altro consulente che le comunica la decisione di “riposizionarla”. Svolgerà altri compiti mai affrontati prima. Lei non obietta nulla e a quel punto si sente dire, senza più giri di parole, che l’azienda non la vuole più e che se non avesse accettato l’incentivo subito sarebbe stata comunque licenziata al compimento di un anno del figlio. Anzi, meglio non presentarsi fino a quel giorno.

Di fronte a quel trattamento, la donna non ci sta. Continua ad andare a lavoro, ma il trattamento che riceve è sempre peggiore. Perfino il rapporto con i colleghi diventa difficile: iniziano a farle osservazioni su presunti errori e ad escluderla.

Da responsabile di reparto si ritrova a fare fotocopie, rispondere al citofono (“ma non al telefono”), triturare documenti e archiviare fascicoli cartacei. Dal suo computer non ha accesso alla posta elettronica, né ad altri indirizzi aziendali, non viene coinvolta nelle riunioni e, soprattutto, viene ignorata da tutti. Persino quando viene cambiato il cancello elettrico all’ingresso dell’azienda a lei non viene consegnato il telecomando.

Chiara, decisa a non rinunciare al suo lavoro, si è rivolta alla Cgil e ora sta portando avanti la sua battaglia.