Avevo perso tutto

avevo perso tutto

Avevo perso tutto. Sono rimasta incinta della mia prima figlia a 33 anni. Avevo un lavor seppur precario ma continuativo.

Dopo la laurea ho scelto di restare in università, dapprima con un assegno di ricerca, poi con contratti a progetto. Questo mi aveva permesso una maggiore flessibilità e libertà di accettare collaborazioni che rendevano il mio lavoro estremamente vario. Ho sempre considerato tutto questo un privilegio, nonostante alle spalle non avessi alcun tipo di certezza. Ogni anno credevo di aver costruito un tassello in più per rendere la mia collaborazione non dico indispensabile, ma quantomeno necessaria.

avevo perso tutto

Il mio lavoro era fatto di conferme, conferme annuali che mi regalavamo una strana euforia, euforia dettata dalla strana consapevolezza che ci fosse la volontà di trovare per me sempre una soluzione possibile per tenermi, perchè avevano bisogno di me.

E poi decido di voler diventare mamma e all’improvviso mese dopo mese scopro come quella tipologia di contratto considerata tanto vantaggiosa e flessibile rappresenti una trappola burocratica per accedere ai diritti della maternità. Con un contratto a progetto hai diritto solo ai cinque mesi obbligatori con un’indennità economica che viene calcolata in percentuale sulla tua ultima retribuzione ed erogata nella maggior parte dei casi in formula unica al termine del congedo (in sostanza rischi di non percepire un euro nei 5 mesi nei quali i soldi da spendere sono tantissimi).

Al di là di questo sono molto tranquilla consapevole del fatto che quella flessibilità lavorativa acquisita mi permetterà comunque di gestire il mio tempo rispettando anche le esigenze di un bambino di 4 mesi quando obbligatoriamente dovrò ritornare operativa. Molto del lavoro già precedentemente veniva svolto da remoto quindi non sarebbe cambiato molto. Il mio contratto era in scadenza. Sarebbe scaduto immediatamente dopo la nascita di mia figlia, ma sapevo di essere tutelata.

A pochi giorni dal termine del contratto ricevo la chiamata del mio “capo” che dopo avermi chiesto se tutto procedesse per il meglio, mi ha comunicato che il rinnovo di contratto poteva essere plausibile solo se io fossi rientrata immediatamente in ufficio…si perchè le modalità di lavoro erano improvvisamente cambiate, il lavoro da remoto non più concesso. Io allatavo mia figlia di due mesi in maniera esclusiva, non potevo pensare di lasciarla per rientrare in ufficio 8 ore al giorno.

Gli dissi che non avevo terminato ancora il mio periodo di congedo obbligatorio e che forse avrei avuto diritto ad un orario ridotto (purtroppo di questo non ne ero certa perchè gli enti statali preposti se ne guardano bene dal fornirti tutte le informazioni se non sei tu a richiederle espressamente). Lui a quel punto è stato categorico “Noi abbiamo bisogno di te adesso, dentro o fuori, non possiamo aspettare”. Gli ho chiesto una notte per pensarci anche se avevo già deciso. Non ne ho parlato con nessuno, volevo stare con mia figlia almeno fino al termine della maternità obbligatoria…era un mio diritto e un mio dovere allo stesso tempo.

Avevo perso tutto. Avevo perso la sicurezza di quelle conferme, avevo perso un lavoro che mi entusiasmava, avevo perso quella che fino a pochi mesi prima era la mia vita.

Ma sapevo che non dovevo gettare la spugna, dovevo provare a recuperare il recuperabile, lo dovevo prima di tutto a me stessa.

Fortunatamente avevo mantenuto una piccola collaborazione con un altro ateneo e da questo ho cercato di ricostruire il mio futuro. Ho iniziato a riorganizzami, mettendo a disposizione più del tempo per il quale ero retribuita.

Poi mi sono fermata a riflettere se volessi un secondo figlio, sì perchè questo avrebbe potuto farmi perdere nuovamente quello che stavo costruendo. Non potevo aspettare, o subito o niente. Dopo 22 mesi è nato il mio secondo figlio e io nel frattempo ero riuscita a mettere i primi mattoni della mia nuova vita.

Si perchè il mio lavoro è una parte fondamentale della mia vita, non sono nata per fare la mamma a tempo pieno. Non è stato facile. Ho pianto sopraffatta dai sensi di colpa, sensi di colpa del non riuscire ad essermi costruita delle certezze prima di mettere al mondo dei figli. Ho pianto ancora quando davanti a me vedevo la disapprovazione di coloro che non giustificano la scelta di dedicare del tempo al lavoro per una donna quando il figlio ha meno di 6 mesi. Ho pianto quando il treno era in ritardo e sapevo che dovevo tornare a casa il prima possibile per allattare mio figlio. Ho pianto quando il mio fisico non ha retto per la fatica e mi ha costretta a letto con la polmonite.

Ma ho pianto anche di gioia quando vedevo che le mie fatiche mi stavano ripagando.